Imperfetti noi

Il Festival di Cannes di quest’anno, con alcuni dei suoi titoli in particolare, si è annunciato robusto, interessante, ricco anche per quelli come me: cinefili autodidatti e dell’ultima ora, molto più curiosi che esperti in materia.

Ancor prima della sfilata sulla Croisette c’è però stata una tornata di film italiani a quanto pare di tutto rispetto, mettendo insieme giudizi di critici, di appassionati e voci di corridoio, oltre ad una manciata di prestigiosi riconoscimenti. Noi italiani sembriamo i primi a stupirci di ciò, non abituati ad avere particolare successo in questo campo, complice la sciatteria di un certo cinema unicamente rivolto agli esiti del botteghino, come a trasformare le pellicole in enormi drammoni che però non rispettano il senso vero del dramma.

Oggi, proprio nella veste di inesperta e curiosa, dirò di uno di questi, avendolo visto circa un mese fa ed avendomi a suo modo sconvolto.

Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. E già qui ci siamo: il titolo mi colpisce, si sa, la prima impressione conta. E seduta in sala mi soddisfo nel vedere che si va ben oltre il puro e semplice marketing. Come a dire: oltre al titolo c’è di più. La storia è semplice, quasi banale, almeno fino a che non diventa cruciale. Si sviluppa quasi del tutto in un unico ambiente, il soggiorno in cui ha luogo una cena tra amici, a dimostrazione del fatto che non è sempre indispensabile portare in scena vicende estreme, roboanti, truculente o ad un passo dalla più totale inverosimiglianza, per emozionare e schiaffeggiare.

Gli attori sono assai bravi, nelle loro italiche fattezze e modalità che a mio avviso non scadono mai in stereotipate macchiette. E sono anche belli certo, ma soprattutto e prima ancora rappresentano personaggi affascinanti, di quel fascino modellato da una certa insicurezza, quella stanchezza nello sguardo, la profondità delle occhiaie, un’ironia mista di amarezza e gioia, indispensabile alla sopravvivenza nell’urto contro dinamiche umane trite e ritrite.

Brad Pitt e Angelina Jolie sono due fighi smisurati e due grandi attori, non si discute, ma oso dire che non so se sarebbero stati tanto credibili, così altrettanto affascinanti seduti allo stesso tavolo dei nostri. Come a dire: oltre alla gnoccaggine c’è di più.

Ma andiamo al sodo della vicenda: questo gruppo di tre coppie sposate più un single, alcuni dei quali amici di vecchissima data, decidono di fare un gioco che nessuno di noi al di qua dello schermo si presterebbe a fare e proseguire dopo i primi dieci minuti. Protagonisti sono gli amati-odiati smartphone e iphone messi per così dire “in chiaro” da ognuno al centro del tavolo.

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Ed ecco che prima che qualcuno se ne renda davvero conto il tenore cambia, la commedia vira lentamente ma inesorabilmente in tragedia: il gioco diventa un gioco al massacro, lo scherzo passa a vivere di vita propria ed il bandolo della matassa iniziale finisce per perdersi nell’uragano, al termine del quale sarà diventato un miracolo il semplice fatto di non annegare.

Le problematiche intorno a cui viene sviluppata questa commedia umana sono facilmente immaginabili, perchè sono quelle di sempre: il tradimento, la sincerità, la solitudine, la famiglia, l’amicizia, l’omosessualità.

Nessuno ne esce pulito o per lo meno salvo, nessuno può dirsi al sicuro nelle relazioni rappresentate, se per sicuro si intende autenticamente consapevole di chi ha al fianco o di fronte, così come di quale personalità lui-lei stessa metta in campo ogni volta nella creazione della medesima. L’unica certezza rimane, ribaltata, quella svelata alla fine del film da uno dei protagonisti: siamo frangibili. Eh già, quale altra bella, sana, banalità. Un po’ tardi ormai.

Perchè noi non siamo solo frangibili ma prima e di più siamo ipocriti, comodi, superficiali, egoisti, egocentrici, crudeli. Drammaticamente imperfetti, noi perfetti sconosciuti. E il film ha questo immenso pregio, secondo me, di sbattercelo in faccia, silenziosamente ma duramente, instillandocelo poco a poco, bugia a bugia, deriva dopo deriva. Anche con una certa ironia diffusa, un indizio di gentilezza, servendosi di alcune trovate originali, tra cui per me risulta memorabile la frase che ad un certo punto una delle protagoniste sibila, sguardo perso a mezz’aria, più tra sè e sè che rivolta ai suoi commensali: dobbiamo imparare a lasciarci.

Perchè si sa l’amore vince sempre, l’amore è più forte, l’amore è bello e merita la nostra lotta, quasi tutte le nostre lacrime e le notti di cui disponiamo: ce lo siamo ripetuti allo sfinimento e ce lo siamo sentiti ripetere a destra e manca e in ogni sala del cinema in cui siamo entrati. Eppure la lezione non l’abbiamo imparata, affatto. Allora forse è più impellente un piccolo passo indietro, mandare giù e digerire un’altra dozzinale verità. Come a dire: prima impara a stare in piedi, poi sarai in grado di correre.

Così, in tutto questo trambusto e stordimento, in un equilibrio esploso, all’uscita dalla sala la prima domanda che ti viene spontanea da fare non è la solita manifesta “Ti è piaciuto?” al tuo compagno di gesta cinematografiche ma un’altra, un tantino più tra te e te: “E io… sarei sopravvissuta ad una prova simile? Quali delle mie relazioni sarebbero rimaste in piedi o per lo meno tali a quelle che erano o credevo fossero in seguito ad un analogo esperimento?”

La risposta per fortuna nessuno la sa, o forse se la dà. Sta di fatto che il film è bello, bello sul serio: riesce ad emozionare e a far immedesimare lo spettatore che ad un tratto si troverà in quel bilico assai al limite sulla linea di confine tra l’al di là o l’al di qua dello schermo. E non è affatto scontato riuscire in questa operazione nel modo in cui il regista ci riesce, non scadendo in americanate dell’ultimo minuto o buonismi di sorta. Certo la situazione verso la fine è forse un po’ estremizzata ma sempre in linea con la deriva presa.

In questo modo Perfetti sconosciuti risulta lacerante senza diventare trash, finalmente onesto senza volgarità o facili esagerazioni. Non so se l’intento del regista fosse propriamente quello di rappresentare uno spaccato della comunità umana e sociale di cui tutti più o meno facciamo parte, insieme alla sua scatola nera, collocata nei cellulari e riassunta nella tendenza alla virtualità delle relazioni, insieme al pericolo che essa stessa rappresenta.

Non lo so e in fondo non importa. Mi piace molto di più pensare al lieto fine, se non del film in sala, al film come opera d’arte e costruzione e ai riconoscimenti importanti che ha ottenuto, tra cui due David di Donatello, perchè mi lascia la sensazione piacevole che ti lasciano gli stessi a tematica ambientale, o sociale, o civile in senso più ampio e trasversale, quando vincono un premio.

Le relazioni umane autentiche, quelle di coppia in particolare ma anche tutte le altre, sono qualcosa di raro, da proteggere e riconoscere, da salvaguardare, di cui esultare anche, e una pellicola che le individui per come sono, le fotografi, le coccoli in fondo in tutta la loro distruttività e fragilità, beh, senz’altro merita di essere premiata. Oltre che  – ça va sans dire – vista e rivista.

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