Una delle vere, fino ad oggi inconfessabili, consolazioni che ho ricevuto da questa ultima torrida estate, è stato (ri)leggermi l'”Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters. Ridiscendendo di volta in volta il mio personale fiume più prossimo, sia fisico che cementato di ricordi e di quegli struggimenti di cui agosto è puntualmente pieno, per calarmi a sentire da vicino ed in maniera più verosimile possibile il succo delle vite narrate.
Si sa, lo Spoon River è un caposaldo un po’ per tutti, amanti della poesia e non, e per tante ragioni: per le storie che racconta oltre alle storie o le eredità lasciate, se penso per esempio a Fabrizio De Andrè. E oggi, riprendendolo, mi rendo conto anche per un altro motivo: solitamente le sottolineature ed il grado di vissuto all’altezza di certi punti di un libro fungono da termometro piuttosto fedele della condizione che stavo vivendo nel momento della prima, e poi successiva, lettura.
Perchè se è vero che i sogni son desideri, i segni anche peggio, forse incubi o amichevoli scrolloni ad una certa indolenza, o qualcosa di simile che un libro sempre si premunisce di fare. Sta di fatto che nell’orda di informazioni e sfoghi, lamenti, richiami, (sovraec)citazioni e frasi soffocate o urlate, succedute in questi giorni ai fatti di Parigi, una su tutte, che ho letta con quell’attenzione un po’ superficiale di chi cerca di immagazzinare più vocaboli possibili, mi si è impressa dentro. Sinceramente e molto più di altre, assai più infuocate o altisonanti.
“Ci vuole vita per amare la vita”. Silenzio in sala. Dove ho già letto e riletto e sicuramente sottolineato questa frase? Vado a prendere l'”Antologia di Spoon River”: eccola lì, e dove altrimenti?
La storia del componimento è quella di Lucinda Matlock che ci racconta con il candore e l’autenticità che sono una delle cifre dell’opera, dei tempi in cui andava a ballare e a giocare a carte e di come da uno scambio di cavalieri abbia conosciuto quello che sarebbe diventato suo marito. Con lui avrebbe vissuto settant’anni e insieme avrebbero avuto dodici figli. Di questi otto sarebbero morti prima che lei compisse sessant’anni. E poi Lucinda filava, tesseva, rigovernava la casa, assisteva i malati, curava il giardino e amava fare festa e cantare alle verdi vallate.
Alla veneranda età di novantasei anni ammette di aver vissuto abbastanza e di poter finalmente meritare un dolce riposo. Non prima però di lasciare a noi posteri quell’ immortale eredità nell’eredità:
[…]
Cos’è questa storia di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze cadute?
Figli e figlie degeneri,
la Vita è troppo forte per voi—
ci vuole vita per amare la vita.
Rileggerla oggi arriva più come uno schiaffo, mentre in altri momenti era stata un’amorevole carezza o un consiglio di chi la sa lunga.
La prima vita, in momenti come quello che ci troviamo a sopportare, non ha la forza di arrivare alla seconda, non la illumina nè l’attiva. E’ più quella delle ore fatte passare, dovute al registro su cui segnare i compiti, a colorare nei margini, è quella della scuola in cui viene insegnata la Religione, ed il Catechismo e le Dottrine. Ma mai, che io ricordi o sappia o abbia compreso, di Dio, quel Dio su cui vieni continuamente redarguito e che ti informano solo sia amore, come una verità suprema, senza insegnarti ad amarlo a tua volta. O a confutarlo e rifiutarlo. Di già che in mille angoli di mondo ci sono persone pronte a morire, ed ammazzarti se necessario, in suo nome. Ma appunto la vita per tanti non vale la vita. Spesso è sufficiente una delle due.
Questo di Dio è un tema assai difficile, scottante e delicato insieme, io decisamente non sono diplomatica quando è ora di affrontarlo: ho già concluso da che parte stare e da tempo, mio malgrado. Mi interessa infinite volte di più quella che dovrebbe essere la sua principale emanazione, la conseguenza e creazione diretta, l’ Amore. Di cui se possibile so ed ho capito anche meno. Forse perchè la scuola a cui viene insegnato è la stessa di prima: qui l’importante è saper vivere e stare in società, cavandosela sempre e comunque, possibilmente a scapito del prossimo, saper scacciare in ogni attimo la sacrosantissima solitudine a vantaggio di una relazione, una coppia che funzioni a vita e nonostante tutto, sulla carta per lo meno.
Mai una traccia di insegnamento di cosa sia quell’Amore, quella pienezza e magnetismo sfacciati, quella magia fatta di equilibrio e rispetto che dovrebbero tenere insieme due persone e per analoga forza, prima o poi e per salvaguardia del medesimo, saper separare.
La verità è fragrante ma sconcertante insieme, come capita quando si manifesta, è irriverente e sacra. Hai bisogno di sentirla ma non tutta insieme, vorresti intuire il fondo della frase senza doverla leggere. La verità per me ora e sempre, ma oggi in particolare, è che ci vuole vita per amare la vita. E coraggio ed indignazione per non farsela togliere. E in principio sul fondo di tutto il processo, gioia, per aver la forza di arrivare a tanto.
Ebbene, proprio nei giorni scorsi e appena prima degli attentati francesi, incredibilmente avevo scritto una poesia sulla gioia: credo perchè negli ultimi mesi ne ho sentita poca di vera e autentica in me, percependone parimenti intorno. Oggi mi sembra meno casuale che mai ma adeguata e doverosa, il mio contributo con gli strumenti che ho e che conosco. E’ un regalo a lei che sopporta la nostra perenne ostilità e che se lo merita, al di la di tutto per rischiare seriamente ed ogni giorno la sua, di vita.
TESSERE DI GIOIA
Vieni a sedermi
sulle tue ginocchia
non farmi sentire
di un’altezza sregolata
dimenticati di me
se non accucciata
siediti a tua volta
ma fallo soltanto
se fuori dal recinto
delle manifestazioni a cronometro
ridi sguaiata
ricordami di te tutta
consegnandomi all’istante stesso
la chiave di volta
di una e di tutte
le volte che ti ho indossata
nel tuo fiero taglio
di alta bottega.
Giustapponiti fra me e il mondo
il giusto per una volta
per lasciarmelo quel tanto tondo
e sodo come si sente
una forma nelle mani del bambino
il contorno ritagliato
sul bordo del disegno pastellato
è già vita
e spegni pure il tuo gioco adulto
di dita che negano
che il vero è vero se lo sai
e io che lo sapevo
purchè all’alba mi lasciassi andare
per tornare ad essere io,
a fare il mio:
tessere di gioia
(Valentina Perucca – INEDITO)
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