Di silenzi e parole

Come non farlo. Chiunque dovrebbe farlo. Con la penna, la matita, il pennello, la bacchetta del maestro d’orchestra, l’archetto del violino, aggrappato al proprio strumento, al proprio vessillo di libertà. Come non dirlo, avendo uno spazietto privilegiato quale un blog. E se sembrano poco le parole in un momento del genere e in un oceano di parole già spese, vanno bene anche il sudore, la fatica, lo sforzo di camminare sul baratro della retorica senza caderci. La partecipazione, che per qualcuno vuol dire lacrime, per altri indignazione, per tanti sgomento.

Perchè è vero che i giornalisti uccisi in quella maledetta redazione di Charlie Hebdo erano accompagnati da due guardie del corpo ma è pur vero che erano disegnatori, esprimevano le proprie più autentiche creatività disegnando. E il disegno è una forza primordiale, richiama al bambino che tutti indistintamente abbiamo avuto dentro. E’ qualcosa che nessuno di noi potrebbe affermare di non aver mai fatto. Ma l’aspetto più curioso è che non si tratta di un’azione neutra, compiuta tra le altre. Disegnare vuol dire creare ma anche difendersi, come spesso fa proprio il bambino quando vuole rappresentare qualcosa che lo sovrasta senza riuscirci a parole.

E poi i primi due a morire sono state quelle guardie del corpo. Mi ha colpita la simbologia che ricrea un simile fatto: che il primo a cadere sia stato proprio il baluardo di un’intoccabile e sacra fantasia, di quel bambino che è stato in noi. E che spesso è ancora lì e sopravviverà a lungo. Per questo motivo sì che siamo tutti dei Charlie o sicuramente lo siamo stati, e vanno bene i vari punti di vista per carità, e sui social si è già visto il Charlie sfigato, quello con la faccia di Woody Allen, il Charlie Brown. Noi umani esorcizziamo le paure così, affibiando nomi ed immagini, scrivendo epitaffi, cercando in qualche modo di stare altrove. Ed è giusto, che male c’è? Si chiama sopravvivenza.

Oggi mi sento di voler stare per un po’qui invece, nei miei pensieri, che al momento opportuno diventeranno forse dei versi. Certo sono addolorata, sinceramente confusa. Ancora di più dopo aver tentato di capirne qualcosa attraverso gli occhi e le analisi degli esperti. E sono fuggita, per rifugiarmi nel mio blog, dove mi sono sentita più forte per un attimo. Responsabile delle mie parole, molto più che in altre occasioni.

Ovviamente la mia idea sull’attacco a Charlie Hebdo me la sono fatta e ovviamente va ad attingere, come funziona per tutti, alle convinzioni che già avevo prima di quest’ultima carneficina. Solo cerco conferme e giustificazione al pensare quel che penso della religione e dell’universo (o dovrei forse dire impero) che vi sta intorno. Che sono convinta tutti insieme abbiamo costruito e costruiamo vivendo le nostre quotidianeità, spesso inconsapevolmente ma che sono fatte di linguaggi, atteggiamenti, usanze, superstizioni, e tutto il resto. Che vivono di vita propria dentro i nostri immaginari e una volta che li esprimiamo sono già compiuti, forti, caratterizzati, pronti a lasciare il segno.

Questo mi interroga e a volte mi indigna più di tutto: il poco peso che diamo a noi stessi, alle nostre possibilità, agli atti che compiamo, alla capacità di influenzare il mondo in cui viviamo. Vittime della sindrome da deresponsabilizzazione prima che vittime del terrorismo.

Ecco allora, come dicevo, perchè sono qui oggi. E’ giusto per me sforzarmi di scrivere questo post, imponendomi di non fare finta di nulla, che domani è un altro giorno. Che ne hanno già parlato in diecimila. Non importa che le voci che si sono sollevate fino a qui siano tutte più autorevoli e documentate di me in materia; io mi ritengo pur sempre un’osservatrice accanita e niente mi attrae e mi porta a farmi più domande della foresta di simboli (come disse Baudelaire parlando della natura) e linguaggi che l’essere umano sa creare. La poesia è esattamente tutto ciò. Nasce da qui.

E io faccio poesia, non politica meno male, altrimenti in questo momento sarei due volte più incazzata rispetto all’accaduto, prendendo atto del fatto che tutto il mio sapere e agire non ha risparmiato nessuna tragedia e nessuna ne risparmierà. Come non saranno la politica e i politicanti a salvarci dalla crisi economica e sociale di questa epoca, semmai a spingerci un po’ più dentro, ma le nostre singole e consapevoli prese di posizione rispetto ad essa.

Questa volta è toccato a dei disegnatori, mi è venuto da chiedermi chi mai potrebbe dirsi veramente al sicuro da qui in avanti. Così come mi sono sentita triste per la vicenda in sè ma più di tutto perchè si è tramortita la satira, la sorella maggiore dell’ironia. Uno dei miei più sicuri appigli, lei sì, quasi una fede. Cosa resterà mai del genere umano se veniamo colpiti a questi livelli della sua espressione? Sono state messe in discussione tutte le nostre capacità primarie e primordiali insieme. Come prima sono stati colpiti tutti i noi bambini nell’attentato, ora di nuovo siamo come bambini di fronte a quelle scene: soli ed indifesi, con le nostre matite colorate e penne in mano.

Tanto vale usarle allora, lasciarle fluire sul foglio. Ognuno grazie alla propria arte. E io che mi avvalgo di poesia riporto questa volta i versi di Kahlil Gibran, il poeta e filosofo libanese. Non è stato facile trovarne una che sentissi adeguata alle emozioni di oggi: quando mi sono imbattuta in questa mi è bastato leggerla una volta per percepirne la potenza.

Gibran esprime una religiosità assoluta, intesa come esperienza del sacro, dell’essenza. Come l’essere umano e la sua vita. Nient’altro. Non indossa qualche ben precisa tonaca, non si schiera, non impressiona. Ad una simile dimensione non si accede se non attraverso il raccoglimento ed il silenzio. Il titolo del romanzo in cui si trova Le ali spezzate dal canto suo non avrebbe potuto essere più emblematico.

E allora dopo tanto rumore, dopo tante parole tentate ed alcune sicuramente sbagliate, silenzio per le vittime dell’attacco, come di tutte le altre. Silenzio per lasciare fluire meglio i pensieri. Silenzio per pensare alla prossima mossa di sopravvivenza, di penna e parola.

 

 

 

Esiste qualcosa di più grande e più puro

rispetto a ciò che la bocca pronuncia.

Il silenzio illumina l’anima,

sussurra ai cuori e li unisce.

Il silenzio ci porta lontano da noi stessi,

ci fa veleggiare

nel firmamento dello spirito,

ci avvicina al cielo;

ci fa sentire che il corpo

è nulla più che una prigione,

e questo mondo è un luogo d’esilio.

 (Kahlil Gibran – Le ali spezzate)

 

 

 

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